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Il video shock “Violences du silence” trascritto in italiano affinché tutti possano comprendere il dramma della violenza

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A cura di Luna Alessia Toscano è la traduzione in italiano di “Violences du silence” il video di otto donne Disabili francesi che ha scioccato l’opinione pubblica.

Ieri, 5 ottobre, vi proponevamo l’articolo “Donne Disabili vittime di un amore violento” che ha scioccato l’opinione pubblica europea per i suoi contenuti.

Vista l’importanza del messaggio dato al mondo dalle otto donne Disabili vittime di violenze fisiche e psicologiche abbiamo chiesto il supporto della Sig.na Luna Alessia Toscano – studentessa presso il Dipartimento di Studi Umanistici ~ Corso di laurea in Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Trieste – che ci ha tradotto il parlato del video. Così potrete comprendere ogni parola detta dalle protagoniste e riflettere su storie drammatiche che, in questo video raccontano otto storie, ma che nella realtà rappresentano un numero ben maggiore di casi altrettanto drammatici.

Speriamo apprezziate questo sforzo che, abbattendo le barriere linguistiche, permetterà di comprendere quello che altrimenti poteva essere solo intuito per chi non conosce la lingua francese.

A pagina 2 potete trovare la trascrizione in lingua francese che potrà essere utile a quanti, per disabilità, non sempre riescono a fruire dei contenuti video.

Vi lasciamo ora alla lettura della trascrizione del video Violences du silence. È da brividi, realmente scoccante!

Trascrizione del parlato in lingua italiana

Chantal

– Una ragazza traduce nella lingua dei segni la voce di Chantal in diverse stanze di una casa. –

Mi chiamo Chantal. Ho cinquanta’anni. Sono sorda, non ci sento bene. Nella mia testa ronzano parole maligne: «Sorda, pazza. Lo fai apposta. Non senti niente se non ciò che vuoi tu». I miei bambini si prendono gioco di me. Mio marito mi picchia.
Tuttavia ho sempre voluto lavorare. Quando rientro a casa la sera, mio marito mi dice: «Ed ecco la sorda!». E mi colpisce con uno schiaffo, poi un secondo. Non capisco ciò che mi succede.
Svolgo i lavori di casa e in cucina. Mi occupo di tutto nonostante il mio lavoro. Se la bistecca è cotta troppo, mi dà un calcio; i bambini ridono. Mio figlio è nato dandomi dei pugni se non facevo tutto come voleva lui. Non capisco il perché. Non ne posso più.
L’atro giorno mi sono ribellata: ho osato gridare la mia disperazione, la mia rivolta. Allora mio marito mi ha preso la testa e ha stretto le sue mani intorno al mio collo: stavo soffocando. Non riuscivo più a respirare. Stringeva, stringeva. Infine mi ha lasciata cadere per terra. Gridava: «Ti strangolerò, ti strangolerò una volta o l’altra se lo dirai a qualcuno!», ed in effetti lo ha fatto altre volte.
Non ne potevo parlare a nessuno. Io non sento bene e nessuno mi capisce.

Cecile

– Una donna che ha perso la vista si ritrova su una sedia a rotelle spinta da un uomo brutale. –

Mi chiamo Cecile. Ho trent’anni. Due anni fa mi sono sposata con Nicolas; a quel tempo stavo già progressivamente perdendo la vista. E in seguito mi hanno diagnosticato anche una miopia che ha avuto un’evoluzione rapida e veloce. Mi sono ritrovata così sulla sedia a rotelle.
È stato complicato gestire questo nuovo modo di muoversi e soprattutto è stato difficile accettare questo mio doppio handicap.
Speravo di poter contar su Nicolas affinché mi aiutasse ma lui non era più la persona di prima. Credo non abbia potuto sopportare l’arrivo di questo nuovo handicap. Dapprima era distante, poi divenne rapidamente odioso, violento e quasi perverso, tranne quando c’erano persone intorno a noi. In quei momenti ritornava la persona gentile che era stato in passato.
La nostra quotidianità divenne ben presto invivibile; scoppiavano litigi per un non nulla. Si dimenava, non la smetteva di urlare. In casa, quando ero sulla sedia a rotelle, mi faceva girare a tutta velocità e poi mi lanciava contro le pareti. Cercavo di trattenerlo e di fermarlo ma lui era più forte. E tutto ciò lo faceva ridere.
Mi ha picchiata spesso. Si era inventato dei giochi umilianti anche per quando eravamo fuori casa. Per esempio più volte mi versava la cola sui capelli. Lui se ne andava via ridendo, lasciandomi sola per strada inzuppata di cola, sconvolta e in lacrime. Un altro esempio: se ci trovavamo a camminare una strada ripida, lui afferrava la mia sedia a rotelle e la spingeva verso la discesa. Io urlavo di terrore.
Oppure quando io volevo rientrare a casa, lui prendeva le mie chiavi e le gettava lontano o le appoggiava su un ripiano alto cosicché per me fosse impossibile raggiungerle.
Oggi vorrei divorziare ma credo di non averne la possibilità.

Elsa

– Una donna di piccola statura cammina per la strada tra la folla. –

Mi chiamo Elsa ed ho quarant’anni. Sono alta un metro e venti. Soffro di acondroplasia, la forma di nanismo più diffusa. I mezzi pubblici sono il mio incubo peggiore. Fra infrastrutture obsolete assolutamente non adatte alla mia piccola statura ed in generale a qualsiasi tipo di handicap, la stupidità, l’egoismo e l’inciviltà delle persone, la violenza sono elementi permanenti.
Sulla metro, nessuno mi guarda: non esisto, sono invisibile. Vengo travolta e calpestata dalla folla, senza contare tutte le gomitate, i calci e tutte le volte che vengo colpita da uno zainetto.
E anche se faccio una manifestazione, se grido, se recrimino la mia presenza, nessuno mi bada.

Non respiro, soffoco. All’ora di punta, vengo schiacciata e bloccata contro la porta che si apre e si chiude ad ogni fermata. Il tutto accade nella più totale indifferenza. E io mi sento male.
Un giorno alla fermata della metro, un uomo robusto mi ha presa per le braccia, mi ha sollevata da terra e mi ha gettata in aria. Rideva sguaiatamente. Nessuno ha mosso un dito per aiutarmi. Io ero terrorizzata. Ha gettato una nana per aria come se fosse in uno spettacolo circense la cui attrazione è il lancio del nano. Sono rimasta impietrita.
L’aggressione nel quotidiano è proprio questa: l’indifferenza della gente di fronte alle persone che sono affette da un handicap o che si trovano in una posizione debole.
A volte tutto mi ricorda che non sono come tutti gli altri, proprio no.

Karima

– Una giovane donna su una sedia a rotelle guarda la televisione. Fuori piove. –

Mi chiamo Karima e ho quasi 19 anni. Sono affetta da handicap: cammino con molte difficoltà, ci vedo e ci sento male. Non ho mai saputo il nome di questa malattia.
Vivevo con i miei genitori i quali però non si occupavano di me. D’altronde nessuno si prendeva cura di me. Passavo tutto il giorno sulla mia sedia a rotelle davanti alla televisione o in camera mia senza nulla da fare.
Mio padre ripeteva a chi gli dava ascolto che il malocchio si era abbattuto sulla nostra famiglia a causa mia, che sarebbe stato meglio che non fossi mai nata.
Mi piaceva molto mangiare ma, quando mio fratello mi doveva sollevare per permettermi di uscire, non mi facevano mangiare cosicché pesassi meno.
Sono partita con mio padre per tre mesi in un viaggio in un altro paese. Tutti mi prestavano attenzioni e cure. Tutto e tutti si sono occupati di me. Ogni giorno venivo lavata e profumata. Mi sentivo come una regina, convinta di essere bella. In compenso tutti i giorni gli uomini della famiglia, cugini, nipoti, zii, fratelli facevano “l’amore” con me, “l’amore” così lo chiamavano loro. Mi violentavano. È stato orribile: io stavo male.
Hanno insegnato ai più giovani come si faceva. Ho pianto molto. Era come se io non esistessi più. Ma dovevo fingere, fingere di provare godimento, fingere che mi piacesse, anche se era orribile, anche se ci stavo male. Se non lo facevo, mi insultavano “Puttana, troia!”, mi picchiavano. Tutto ciò durò tre mesi. Il ritorno in Francia fu complicato.
Ad oggi ho solo voglia di morire.

Olivia

– Una donna si trucca per nascondere la sua cicatrice; cammina zoppicando lungo un ampio corridoio, si ferma ad osservare la strada. –

Mi chiamo Olivia ed ho quarantasette anni. Alcuni anni fa ho avuto un incidente celebrale vascolare. Ho trascorso una vita felice e mi sono sposata tardi. Oggi ho una figlia di 25 anni: è problematica.
Suo padre mi ha lasciata quando mi sono ammalata. È sparito e non ho più avuto sue notizie. Cammino aiutandomi con un bastone e parlo a fatica poiché ho subito una tracheotomia. È difficile, molto difficile. Ho dovuto lasciare il mio lavoro.
Mia figlia mi rimprovera la mia malattia, dice che sono una buona a nulla, che sono solo di disturbo, che lei non è la mia serva e che la esaspero. Oramai mi picchia da due anni e nasconde i miei bastoni per camminare quando se ne va.
Si è impossessata del mio computer portatile e ora mi sento così sola. Ma che fare? Dopotutto è comunque mia figlia, l’ho messa io al mondo.
La settimana scorsa mi ha tirato i capelli così forte che mi ha fatto cadere per terra. Sono rimasta distesa a terra per un bel po’ di tempo. Non ho osato parlarne.
Quando è arrivata la mia infermiera personale, le ho detto che ero scivolata e lei mi ha riposto: «Stia attenta, potrebbe rischiare di rompersi la gamba un giorno o l’altro.».
Davanti agli altri, mia figlia fa la gentile: si prende cura di me, è premurosa, mi dice che non è il caso di uscire, che è pericoloso. Le credono. Dicono che sono fortunata ad avere una figlia così.
L’altro giorno per vendicarsi, ha stretto la mano intorno al tubo della tracheotomia. Non riuscivo a respirare, stavo soffocando. I suoi occhi mi terrorizzano.
Mi ha detto: «Ma quand’è che morirai così mi lascerai vivere in pace?». L’handicap rende pazzi gli altri.

Claire

– Per la strada un bastone, una donna cieca. A casa sua, va a tentoni, cercando il suo bastone, lo trova ed esce di nuovo di casa. –

Mi chiamo Claire e ho quarantadue anni. Sono cieca. Mi sono appena sposata, ancora non ci credo! Mi ha sposata nonostante la mia cecità. Lui è così bello, lo amo. È gentile anche se talvolta si dimostra autoritario ed impaziente.
Un giorno ho rovesciato per sbaglio un bicchiere di vino sulla tovaglia che mi aveva regalato lui stesso. Si è arrabbiato moltissimo e mi ha picchiata. «Sta’ più attenta, stronza!». È stata colpa mia, sono cieca. Lo esaspero. Ha cominciato a picchiarmi ogni sera dopo il lavoro. Sempre più forte. «Così impari a non vederci nulla!», gli ho risposto che non è colpa mia. A questo punto si è infuriato. Ad oggi mi dà una quindicina di sberle al giorno.
Lo cerco per casa, e quando lo trovo gli bacio i piedi. Lui vuole che io mi sottometta. Non capisco nulla, sono innamorata. Sono pronta ai suoi schiaffi, ogni sera. Oramai è diventato un rituale.
Quando andiamo al ristorante, è sempre molto tenero: mi accarezza ed io nascondo i lividi con un foulard.
I miei colleghi mi fanno domande ed io gli rispondo: «Sapete bene che sono cieca. Sbatto sempre contro qualcosa, non faccio abbastanza attenzione.».
Sono obbligata a mentire se voglio restare con lui.

Anne

– Una giovane donna affetta della sindrome di down rientra a casa sua, indossa un vestitino e dei gioielli. Guarda fuori dalla finestra. –

Mi chiamo Anna, ho vent’anni e sono down. Oppure, diciamolo pure, sono idiota, faccia da scimmia, bavosa. Dopotutto ho vent’anni e mi piace ridere, mangiare, passeggiare, come tutte le ragazze della mia età. Sono francese e amo Chérif, e anche lui mi ama. Finalmente anche lui mi ama. Siamo andati insieme “al paese”, come lo chiama lui. E ci siamo sposati là. Ero bella nel mio vestito da sposa tradizionale. La festa è stata magnifica, una favola. Tutti erano attorno a me e si congratulavano.
Poi sono tornata in Francia. Là tutto ha cominciato a vacillare. Mi ritrovo rinchiusa e vengo picchiata dal padre di mio marito. Quest’uomo mi tocca, mi viola. Non posso dire nulla sennò lui dice che sono io a mentire. Chi mi crederebbe? E anche se mi credessero, farebbero finta che non sia così.
Grazie al nostro matrimonio, mio marito otterrà i documenti per rimanere in Francia. Mi ha detto che una volta ottenuti, mi getterà nella spazzatura, straccerà i miei documenti e mi ucciderà. Non avrà più bisogno di me.
Sono affetta dalla sindrome di down, ma sono bella. E vengo picchiata, violata e a volte bruciata con mozziconi di sigaretta. È necessario che io dica che amo Chérif oppure lui mi picchia. Questa settimana mi ha rotto un braccio, sono in ospedale. Chi mi potrà salvare?

Solange

– In camera sua, una ragazza senza braccia né gambe si alza dal letto. Si siede a fatica sulla sedia a rotelle elettrica. Esce dalla stanza. –

Mi chiamo Solange, ho cinquantadue anni. Sono nata senza braccia né gambe. È una conseguenza dell’assunzione di talidomide da parte di mia madre durante la gravidanza. Questo medicinale era usato negli anni ’50-’60 come sedativo e antinausea; provocava gravi malformazioni genetiche.
In realtà non ho molti ricordi della mia infanzia o della mia adolescenza. Soltanto la sensazione che era difficile e doloroso. Ero in sedia a rotelle e lo sono ancora. Avevo delle protesi e le porto ancora.
A vent’anni ho conosociuto Jean-Claude, lui ne aveva 25. Sono stata affascinata da quell’uomo. Non mi trattava male, era simpatico, premuroso e gentile. Ci siamo innamorati, o almeno era quello che credevo.
Eravamo una vera coppia ma quando facevamo l’amore, avevamo un po’ di difficoltà. Gli appartenevo, faceva di me quello che voleva e anche più di quanto io fossi disposta a subire.
E poi un giorno mi rifiutai. Da là è cominciato l’inferno. Mi picchiava e poi si scusava dicendomi che mi amava. Era l’inferno.
Con il passare del tempo è diventato sempre più brutale. Mi picchiava per un sì di troppo, per un no di troppo. Mi difendevo come potevo e lui mi ripeteva: «Tu non sai cos’è la vita. È stata troppo gentile con te!».
E poi l’orrore si è trasformato in coraggio. Ha riposto la mia sedia a rotelle in cantina ed ha nascosto le mie protesi. Mi faceva cadere e mi dava calci quando ero al suolo. Urlava: «Tu sei mia, faccio di te ciò che voglio. Ti uso per il sesso!». E cominciò ad abusare di me più volte al giorno.
Mi vedevo morta. Ad oggi sto uscendo da quell’inferno. Mi sto riprendendo.

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